La nascita di un progetto musicale è un intreccio di ispirazioni, incontri e casualità che si trasformano in un percorso artistico. “Bliss: Canti d’Amore” è nato in questo modo, germogliato nei giorni incerti della pandemia, quando il bisogno di creare bellezza e condividerla era più forte che mai. Collaborando con Francesco Giannelli, direttore artistico del Quadracoro, abbiamo dato vita ad un progetto di canzoni vocali da camera tutte al femminile. Con Francesco condivido il lavoro con il coro, ma volevamo lavorare insieme anche al di fuori, in un contesto più personale. Il pianoforte, per me, è casa, e questo album è nato dal desiderio di abitarlo in compagnia di compositrici donne. Negli ultimi anni, si nota una crescente attenzione verso la musica composta da donne, ma quanti uomini la eseguono? E quanti cantanti la interpretano? L’idea iniziale era quella di esplorare compositrici di diverse nazionalità e, possibilmente, contemporanee. Tuttavia, per questioni di diritti d’autore, abbiamo scelto musiciste il cui repertorio fosse di pubblico dominio. Così è nata la selezione tra Amy Beach (1867-1944) e Cécile Chaminade (1857-1944). Poi mi sono chiesta: perché non includere un’italiana? Gregorio Moppi mi ha suggerito di indagare Gilda Ruta (1856-1932) di cui però non conosceva la produzione. Francesco ha contattato Giovanni Vigliar, studioso della Ruta, e da lì è iniziata un’avventura di ricerca e lettura, alla scoperta di tre donne incredibili e della loro musica. Nel progetto abbiamo coinvolto Jalle Feest al violino ed Elisa Pennica al violoncello, per creare una dimensione propriamente cameristica. Ogni volta che studio questi brani mi pongo la stessa domanda: esiste un modo di scrivere la musica “femminile”? Non ho idea, ma una certezza sì: le circostanze storiche, culturali e sociali in cui queste compositrici hanno vissuto hanno inevitabilmente influenzato il loro linguaggio musicale. Gilda Ruta emerge nelle sue romanze con un’anima profondamente napoletana, forgiata dalle regole imposte dal padre, ma capace di un lirismo semplice che nulla ha da invidiare a Tosti. Cécile Chaminade, con la sua eleganza armonica, alterna delicatezza e audaci scelte timbriche che sorprendono e incantano. E poi c’è Amy Beach, che per me rappresenta qualcosa di speciale. Sarà la sua americanità, il legame con la mia amata Boston, o la sua scrittura mai scontata, che aggiunge sempre un elemento in più, come se cercasse costantemente di superare un limite invisibile.
Non è stato un cammino lineare. La perdita di Leandro Piccioni, ingegnere del suono e regista di questo progetto, ma soprattutto amico e straordinario musicista, ha segnato profondamente il nostro percorso. Dopo la sua scomparsa, il lavoro si è interrotto per molto tempo. Dopo una lunga pausa, abbiamo trovato la forza di riprendere e portare a compimento ciò che avevamo iniziato. Lorenzo Carulli ha completato il lavoro iniziato da Leandro, curando il suono finale della registrazione. Perché Bliss? All’inizio avevo pensato a “Ecstasy”, che è anche il titolo di una delle canzoni, per mettere in evidenza l’abbandono senza pudori nei propri sentimenti. “Bliss” esprime lo stesso concetto, evocando un senso di beatitudine e passione. La sorpresa sarà anche vedere il lavoro di Beatrice Bresciani, che ha curato la copertina, e di Giancarlo Mazzaro, fotografo 😉
Gilda Ruta, Cécile Chaminade, Amy Beach, tre musiciste che nascono a metà dell‘800, ma che si esibiscono e compongono in ambienti molto diversi tra di loro.
Gilda Ruta nasce nel 1853 in una strada di Napoli, via Santa Lucia, che all’epoca ancora affacciava direttamente sul golfo, componente principale di un paesaggio amato dagli artisti che, come Philippe Benoit, fornivano vedute pittoresche ai viaggiatori. Come scrive il suo biografo, Giovanni Vigliar (Gilda Ruta: Le Due Vite di una Musicista Napolitana, Colonese editore 2019), si tratta di un ‘un luogo bellissimo per venire, letteralmente, alla luce’. Gilda fa parte di una vasta famiglia, una che contava più di quindici musicisti tra i suoi componenti. Il padre, Michele, fu compositore, direttore d’orchestra, scrittore, fondatore di associazioni mutualistiche per musicisti, docente e condirettore del Conservatorio di Napoli, direttore del periodico La Musica; la madre, Emiliana Luisa Sutton, inglese ma nata in Francia e cresciuta nel USA, fu cantante lirica, e forse allieva di Michele, che sposò a 17 anni. La bambina che nacque poco dopo, ‘si sarebbe rivelata vivace, coraggiosa e anticonformista‘. Già all’età di 16 anni le furono riconosciute doti da pianista e cantante in un contesto competitivo che era in questi negli anni, scrive Vigliar, ‘all’avanguardia tra le scuole pianistiche e inoltre ricco di sodalizio musicale, di luoghi nei quali si faceva musica, animata dalla pubblicistica e da dibattito su periodici specializzati’. Autrice di molti dei brani che interpretò, Gilda Ruta compone, tra il 1875 e il 1895, almeno 39 brani per pianoforte, e altri 34 per voce e pianoforte. Il genere prediletto, la Romanza da salotto o da camera, era uno dei simboli della società borghese in Italia tra l’Unità e la Grande Guerra; Michele Ruta ne scrisse che si trattava di ‘un breve racconto di amore sventurato’, espressione di un affetto unico caratterizzato dalla semplicità: ne consegue che anche il pensiero melodico dev’essere unico … affetto che l’anima prova da molto tempo, perciò l’espressione dev’essere mesta e tranquilla… la Romanza dev’essere breve … Le frasi debbono avere una tinta d’uniformità, senza riuscire monotone … Bisogna che tra le idee espresse … non ci sia discrepanza e contrasto… Ne consegue necessariamente la semplicità della forma, che sta non nella parte melodica soltanto, ma anche nella parte armonica… facile ma non triviale … tutto il canto deve avere l’impronta della soavità e della melanconia … gli accompagnamenti debbono scorrere spontaneamente e sempre sottomessi alla melodia … La Romanza è un lavoro assai più difficile di quel che comunemente si crede.
Visto il successo di cui Gilda Ruta ha goduto nella sua ‘prima vita’, quella italiana, rimane misteriosa la decisione presa nell’autunno del 1894 di intraprenderne una seconda, partendo definitivamente per gli Stati Uniti. Vigliar immagina ragioni legate alla sua personalità, alle sue aspirazioni e alla sua necessità di guadagnare. Ruta era rimasta vedova con due figli, sembra che i rapporti in famiglia fossero conflittuali, e/o forse era stata toccata da uno scandolo riguardante il suo comportamento o quello della famiglia del marito defunto, di cui non usa più il cognome. Ad ogni modo, impaziente, libera da vincoli matrimoniali, con una solida reputazione artistica nazionale, un notevole numero di composizioni pubblicate da uno dei maggiori editori europei, benvoluta a Corte e da importanti ministri, probabilmente padrona dell’inglese … dovette sembrarle possibile… tentare la carta di un nuovo, ricco e promettente mercato artistico e didattico nel quale già molti europei avevano trovato accoglienza.
A New York, prima meta obbligatoria per talenti importati, la ‘Contessa Ruta’ ebbe subito successo come pianista e fu presa sul serio come compositrice, in modo particolare presso le ‘élite culturali femminili e riformiste’. A partire dal 1897 – di nuovo sto saccheggiando Vigliar– ‘si sforzò … di organizzare la sua attività artistica e didattica in forme associative e quasi imprenditoriali’: nel corso dei successivi venti anni fonda la Ladies’ New York Concert Company, la Ruta Musical Society, il Ruta String Quartet, la Ruta Music School, e la M.me Gilda Ruta High School for Piano. Vissuta fino al 1932, Gilda Ruta sembra aver trovato in America ‘una collocazione ottimale come didatta e… come concertista’ ma di aver sostanzialmente abbandonata la composizione, e ciò appare spiegabile considerando la sua specifica formazione proprio come compositrice, messa a confronto con l’ambiente profondamente diverso in cui si trovava ad operare, e nel quale, ad esempio, una forma come la romanza non aveva più cittadinanza, se mai l’aveva avuta. Sarebbe ora del tutto ipotetico immaginare quale rapporto essa possa aver intrattenuto con gli esplosivi sviluppi della musica del Novecento … Sarebbe bello immaginarla presente, settantunenne, accompagnata dai figli, seduta accanto a Rachmaninov, Stravinsky, Kreiler, alla Aeolian Hall di New York la sera del 12 febbraio 1924, alla prima di Rhapsody in Blue di George Gershwin al pianoforte, magari anche apprezzandola … come fecero tutti. O anche, settantaseienne al Metropolitan, il 22 aprile 1930, alla prima newyorkese di Sagra della Primavera di Stravinsky con Leopold Stokowsky e Martha Graham, una serata in cui venne eseguita anche Die Glükiliche Hand di Schönberg: tutti universi musicali lontani tra loro, ma soprattutto distinti ormai anni luce anche dalle romanze italiane.
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In teoria la seconda delle tre compositrici in ordine di età avrebbe potuto assistere alla Sagra della Primavera già nel 1913, quando fu allestita al Théâtre des Champs Élysées. Non sono riuscita a consultare la biografia di Cécile Louise Stephanie Chaminade (Marcia Citron, 1988), ma dalle fonti accessibili in rete risulta che non abbia partecipato al ‘Banchetto’ di esperimenti musicali e non solo del periodo 1885-1914. ‘Appartengo essenzialmente alla scuola Romantica, come dimostrano tutte le mie composizioni’ avrebbe affermato Chaminade, ricordando la sua appartenenza ad una generazione precedente, ed implicitamente richiamando le divisioni profonde che lacerarono il mondo artistico del fine ‘800 inizio ‘900. Nata 1857 in una famiglia borghese in un paesino vicina a Parigi, da giovane studia pianoforte e composizione sotto la guida di professori del Conservatorio di Parigi, e durante gli anni ‘70 e ‘80 le sue opere furono spesso incluse nei programmi dei concerti della Société Nationale de Musique. Di questa società, nata per incoraggiare musicisti francesi, sia Debussy sia Ravel furono soci, ma dopo le controversie degli anni ’90 si spaccò e, su iniziativa di Ravel, nacque nel 1910 la rivale Société Musicale Indépendante.
Si ha l’impressione che Chaminade trovò un ambiente meno conflittuale e più accogliente lontano dalla sua città. Si esibì in tutta Francia e in Europa, compresa l’Inghilterra, ed era già famosa e amata negli Stati Uniti quando, nel 1908, diede concerti in 12 città dal nord al sud. A St Louis fu ritratta in un disegno che riporta il suo apprezzamento di ‘un evento sociale seguito da 300 donne – nessun uomo – e tutti gli ospiti in piedi: una cosa caratteristica del popolo americano’.
I programmi dei concerti della Chaminade erano costituiti quasi esclusivamente delle proprie composizioni, delle quali ce ne sono pervenute più di 400. Per lo più si tratta di ‘mélodie’ ed altre forme brevi per il pianoforte, generi che vendevano bene e aiutarono a risolvere le difficoltà finanziarie che seguirono alla morte del padre. Secondo il pianista inglese Stephen Hough, che spesso include le sue composizioni accanto a Chopin, Liszt e Schumann, Chaminade ‘knew how to make the piano sparkle’. Sempre secondo Hough, in un’epoca nella quale i musicisti componevano soprattutto per loro stessi, il fatto che la carriera di concertista fu sostanzialmente chiusa alle donne spiega la relativa paucità di compositrici pre-moderne: se Chaminade fu una delle poche a superare questo ostacolo fu grazie alla sua determinazione e alla sua popolarità presso un vasto pubblico.
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Chissà se Amy Beach fu tra il pubblico che ascoltò Chaminade quando suonò presso la Boston Symphony Hall, inaugurata nel 1900 e nota ancora per la sua eccellente acustica?
Città natia di grandi predicatori puritani del ‘700, Boston e la vicina Cambridge, con il suo Harvard College, avevano formato e accolto scrittori, scienziati, filosofi, e riformatori come Ralph Waldo Emerson, Henry Thoreau, Henry Wadsworth Longfellow, Henry Adams. Ancora fino a metà ’90 ospitò l’élite di così detti ‘Boston Brahmins’, che patrocinava anche le arti visivi (Il Museum of Fine Art fu fondato nel 1879, la School of Art nel ’77), e ‘l‘arte divina’ della musica, considerata strumento di educazione morale e spirituale. Già nel 1852 la Harvard Musical Association rese possibile la costruzione della Boston Music Hall, dove la Handel e Haydn Music Society organizzò performance di arrangiamenti corali della parola sacra, e fino al 1900, quando fu inaugurata la nuova Symphony Hall, ospitò la Boston Symphony Orchestra, fondata nel 1881.
Non è da meravigliarsi se la più giovane delle nostre tre compositrici considerò Boston una città ‘very musical indeed’, e gli anni vissuti lì (1875-1911) ‘a very happy period’. Enfant prodige con orecchio assoluto e una memoria musicale straordinaria, Amy, nata Cheyney, iniziò all’età di quattro anni a comporre nella sua testa, ancor prima che sua madre Clara le permise di accedere con regolarità (sempre limitata) al pianoforte di casa. All’età di 16 anni debuttò alla Boston Music Hall come solista e fu accolta con entusiasmo, ma dopo il matrimonio (1885) con Henry H. H. A. Beach, medico chirurgo e docente ad Harvard, sembra aver rinunciato con equanimità ad esibirsi in pubblico. Incoraggiata fortemente dal marito, si applicò invece alla composizione di grandi generi canonici. La sua Messa in re bemolle fu premierata con grande successo dalla orchestra della Handel e Haydn Society nel 1892, la sua ‘Gaelic Symphony’ dalla Boston Symphony Orchestra nel 1896, e il suo Concerto per Piano, con Beach solista, nel 1900. La canzone, dichiarò, per lei costituiva una forma di ricreazione: dopo una lunga giornata dedicata a brani lunghi e astratti, ‘ Mi rinfresca, sento di essermi concessa un premio speciale quando scrivo una canzone‘.
Queste affermazioni potrebbero ingannarci. La biografa della Beach, Adrienne Block (Oxford University Press,1998), identifica le fonti della sua creatività nelle sue canzoni, dalle quali spesso si trovano citazioni nelle sue opere ‘astratte’. Comunque, la cantabilità che, Beach insisteva, è il primo requisito del genere, e l’immediatezza emotiva delle sue composizioni vocali, non saranno state raggiunte senza una sensibilità acuta alle qualità della voce umana, e una meticolosa composizione. Prima di mettere penna su carta usava memorizzare il testo scelto, recitandolo ad alta voce finché la musica non prendesse forma nella sua mente. Solo dopo
Si appropriava della poesia ulteriormente aggiungendo o modificando un titolo, omettendo un verso, ripetendo una parola o una frase in modo da modificare l’enfasi o conciliare il tempo poetico a quello musicale. Successivamente aggiungeva accenti melodici, armonici e ritmici che hanno l’effetto di ‘straniare’ certe immagini e sopprimono altre, e componeva un accompagnamento che aggiungeva significati propri, cosi modificando il senso stesso della linea vocale.
Uno studio recente (Rebekah Planalp, 2020) illustra come in Ah, Love, but a day Beach trasformò la prima parte di un monologo drammatico di Robert Browning (qui trascritta con le parti aggiunte in grassetto e quelle ommesse barrate):
I. Ah, Love, but a day And the world has changed! Ah, Love, but a day And the world has changed! The sun’s away, And the bird estranged; The wind has dropped, And the sky’s deranged Summer Summer has stopped. Summer has stopped. Ah, Love, but a day And the world has changed!
II. Look in my eyes! Wilt thou change too? Look in my eyes! Wilt thou change too? Should I fear surprise? Shall I find aught new In the old and dear, In the good and true, With the changing year? Ah, Love, Look in my eyes, Look in my eyes! Wilt thou change too?
III. Thou art a man, But I am thy love. For the lake, its swan; For the dell, its dove; And for thee—(oh, haste!) Me, to bend above, Me, to hold embraced.
Planalp nota come con la ripetizione dei primi due versi—appaiono tre volte nella prima strofa—Beach insiste sul tema del cambiamento, ma aggiunge variazioni melodiche suggerendo ripetuti ma vani tentativi di raggiungere mete più alte. Anche nella seconda strofa i primi due versi sono ripetuti all’inizio, e poi ripresi a fine strofa, dove la melodia prolunga la domanda finale, ‘Wilt thou change too?’, utilizzando note lunghe e indicando ‘molto ritardando’. Scegliendo di sopprimere del tutto l’ultima strofa, Beach lascia senza la risposta ottimista con la quale in Browning il/la cantante si auto-rassicura: ‘I am thy love…. For thee … to hold embraced’.
Un altro punto in cui Beach sottolinea la preoccupazione riguardante il cambiamento è nella resa del verso ‘Summer has stopped.’ Anche Browning aveva creato disagio qui, iniziando con un dattilo (‘Summer’) che delude le aspettative generate dai precedenti giambi (‘Ah Love’, ‘The sun’s’) ed anapesti (‘And the world’, ‘And the bird’). Beach carica ancora, ripetendo ‘Summer’ tre volte, iniziando in levare e prolungando la sillaba che corrisponde al battito, passando rapidamente da una dinamica ‘forte’ a ‘pianissimo’ e ritardando la conclusione.
Planalp vede qui una illustrazione di come lingua e musica condividono mezzi comunicativi che prescindono dal senso letterale delle parole. L’uso di cadenze linguistiche e ritmiche aiutano a rafforzare la sensazione che il [o la] cantante) capisce l’inevitabilità del cambiamento, ma cerca disperatamente di prolungare l’estate e lo stato delle cose come sono.
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